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venerdì 26 dicembre 2014



"...dormire e sognare, sognare fino a vivere..."
Nathalie Fiorillo


Auguri di Buon Natale


da
Playlife

lunedì 27 ottobre 2014




“Dammi al vento perché mi porti via.”

Nominerò solo una volta Reyhaneh Jabbari, impiccata a 26 anni per aver ucciso il suo stupratore. Per saperne di più, basta leggere tra gli innumerevoli orrori di questi ultimi giorni e si capirà che non c’è più molto da capire.  Capire, ormai, abbiamo capito abbastanza. E molte persone sanno andare coerentemente oltre, come le coraggiose ragazze di Teheran che stanno protestando contro tali orrori, nonostante gli attacchi con l’acido alla loro Bellezza.  La frase “Dammi al vento perché mi porti via” è un’invocazione straziante della giovane alla madre, chissà, mi sono detta, forse per il timore che a quel poco di sé che resterà in terra,  non siano inflitte ancora insopportabili sconcezze e intollerabili umiliazioni.
Vorrei saper nominare, invece, in un’eco infinita la parola “madre”, perché risuoni come un tuono impietoso in tutte noi, mamme, quando non sappiamo proteggere la femminilità, non da alcuni uomini ottusi e brutali e dalle loro leggi corrispondenti, ma dalla nostra ottusità e brutalità verso noi stesse, quando rinneghiamo il potere e la fragilità che ci rendono femminili: siamo portatrici della possibilità di dare la vita, spingendola al mondo col parto,  ma anche di dare la morte, esattamente nello stesso atto, a future donne e uomini. Rinnoviamo la sacralità e la complessità di questo ruolo, inscritto nel corpo, ogni qualvolta ci assumiamo la responsabilità di far nascere, non solo con il parto, ma con la nostra presenza vitale, donne e uomini più rispettosi della reciproca Bellezza. Rinnoviamo la sacralità e la complessità di questo ruolo ogni qualvolta ci si accapponerà la pelle, perché il vento che spira sarà un vento di morte invocato da una giovane donna che non abbiamo saputo proteggere. Noi, mamme.

Filomena Rita Di Mezza



lunedì 1 settembre 2014

OGNI MATTINA A JENIN



OGNI MATTINA A JENIN
 “Ho sempre trovato difficile non commuovermi alla vista di Gerusalemme, anche quando la odiavo – e Dio sa quanto l’ho odiata, per il suo immenso costo di vite umane. Ma la sua visione, da lontano o da dentro il labirinto delle mura, mi trasmette sempre un senso di dolcezza. Ogni centimetro di questa città racchiude i segreti di civiltà antiche, le cui morti e tradizioni sono impresse nelle sue viscere e nelle macerie che la circondano. I glorificati e i condannati hanno lasciato le loro impronte sulla sabbia. E’ stata conquistata, distrutta e ricostruita così tante volte che le pietre sembrano possedere una vita donata loro dagli eterni bilanci di preghiere e sangue. Eppure, in qualche modo, Gerusalemme trasmette umiltà.”
Ho letto Ogni mattina a Jenin, di Susan Abulhawa, in questo mese di agosto, mentre si rinnovava, imperterrita e insolubile, la guerra nella striscia di Gaza e, ancora una volta ho pensato che la forza della cultura rimane una grande, potente arma contro la distruttività insita nella natura dell’uomo. Grazie   alle  magnifiche pagine  di un libro possiamo sollevarci anche solo una spanna, ma è già un miracolo, dalla bestiale atrocità dell’agire umano quando diventa solo disperazione, terreno di coltura della pulsione di morte, non solo all’esterno, tra i corpi martoriati di madri incinte e dei loro bambini ancora dentro, ma anche all’interno, il che è peggio, perché è lì che si concepisce la gestazione dell’odio, togliendo ogni voce e respiro e movimento all’amore.
Il libro racconta in modo estremamente coinvolgente e intenso, con dense pennellate di realismo, l’esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, la vita nei campi profughi di una famiglia palestinese dal 1948 ai nostri giorni. La storia della Palestina si intreccia con le vicende famigliari attraverso gli episodi che hanno segnato la nascita di uno stato e la fine di un altro. Una storia che, a mio avviso, si riannoda ormai, sia da parte dei palestinesi che degli israeliani, sulla necrofilia, cioè su una erotizzazione perversa della morte, più che sulla necessità di dare spazio e sviluppo alla propria vita. Voglio dire che  si uccide, ci si uccide, palestinesi ed israeliani, perché la spinta a distruggere ha preso il sopravvento sulla spinta al legame, che per definizione è spinta vitale, in quanto è presupposto per ogni creazione. In un contesto dove prevale l’annientamento, la mente può finire per convincersi che brandelli umani, sofferenza, soprusi siano gli unici oggetti della realtà ed è su di essi che si concentra ogni investimento di pensiero, di movimento, di desiderio. Sì, in condizioni estreme di dolore e rabbia, la meta vitale  può diventare, perversamente, la morte.       
(Ovviamente, questa mia considerazione ha ben presente l’importanza, nell’ interminabile guerra fra israeliani e palestinesi, del fanatismo religioso e dei neanche tanto oscuri interessi economici e politici internazionali che sono, da sempre,  parte integrante di questa tragedia).
Le prossime righe  sono scritte dalla Abulhawa,  palestinese, ma potrebbero essere scritte ugualmente da un israeliano e a riprova le farò seguire da uno stralcio di intervista a Luciana Nissim Momigliano, psicoanalista ebrea arrestata come partigiana e deportata nel 1943 in un campo di sterminio. Quando si raggiungono livelli di dolore e rabbia profondissimi, le differenze si annullano, siamo tutti uguali!  d’altronde, pensavo, trovo davvero cinica la mente umana se consideriamo che gli ebrei, che sono stati orribilmente oggetto di sterminio, ora compiono stermini nei campi profughi: dov’è la differenza tra vittima e carnefice? Rispetto a certe barbarie,  le motivazioni storiche, sociali, economiche, diventano secondarie, orpelli di una sete di distruttività che ottusamente persegue la propria meta finale di annientamento, appiattendo ogni differenza, ogni possibilità  persino di scontro: perché certe guerre non sono più neanche uno scontro.
“La sopportazione diventò una caratteristica distintiva della comunità dei profughi. Ma il prezzo che pagarono fu l’annientamento della loro dolce vulnerabilità…Non fargli mai capire che ti hanno ferito, fu il loro credo. Ma il cuore non è insensibile. A volte il dolore affiorava camuffato da gioia. A volte era difficile capire la differenza. Per le generazioni nate nei campi profughi , il dolore trovava quiete in un letto di necrofilia. La morte somigliava alla vita e la vita alla morte…potrei spiegarlo, ma romperebbe/la copertura di vetro sul tuo cuore, / e sarebbe irreparabile.”
“Come dice Primo, non si parla di quello che succede alla gente che il giorno dopo va a morire, ma…c’era uno  che faceva così con la mano-ripete il gesto-decideva chi doveva vivere e chi morire. Più tardi, in una notte di tregenda, una ragazza venne a dirci che le altre che erano arrivate con noi erano andate in gas. E io: ma che dici, sei pazza! andare in gas, un’umanità che si dissolve in nulla…fu in questo modo che cominciai a crederci”
La forza della cultura di cui provo a parlare si sprigiona quando, grazie ad un libro, al di là dei dati anagrafici, riusciamo a  immedesimarci nell’altro, nello straniero, nel nemico, e a riconoscerci: siamo tutti uguali. Ognuno di noi ha dentro le contraddizioni di Gerusalemme, ma se qualcuno ci coinvolge a pensarle, a ragionare, a sentirle, si rinforza una capacità ben descritta da Italo Calvino quando scrive “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare, e dargli spazio”.
E così, nel letto di necrofilia di un campo profughi ho letto alcune tra le più belle righe dedicate alla vita e all’amore e alla speranza, come il nome della protagonista, Amal, che in arabo, con la vocale lunga, significa anche speranza…figlia di una beduina con le cavigliere d’oro che tintinnano e che fa la levatrice…
“Presi la mia nipotina con grande attenzione e con il cuore che entrava in punta di piedi in quella casa d’amore. La sua boccuccia si aprì in un lieve sbadiglio e mi avvicinai per bere il suo profumo. Non c’è niente di più puro, è come se una parte di dio vivesse nel debole respiro di un neonato”
“Tu, mia cara, sei il battito del mio cuore.”
“”Amava oltre misura” dissi. Questa affermazione mi uscì dalle labbra spontaneamente, come succede alla verità una volta che è riconosciuta…mia madre amava illimitatamente nella distanza e nell’isolamento della sua solitudine, al sicuro dalle tragiche piogge del suo destino”
“Perché non avrò tenuto fede alle mie promesse, ma terrò fede alla mia umanità”.

F.R. Di Mezza

P.S. guardate questa foto di Mirella Riccardi, a cui avevamo dedicato un post l'anno scorso...


...siamo tutti uguali!

sabato 30 agosto 2014

Città...da scoprire


Ho selezionato alcune foto scattate in una famosa città,
evitando  quelle che ritraggono monumenti famosi, tranne le ultime due del post.
Una città...multiforme...










  









foto di L. Fiorillo

sabato 9 agosto 2014

Lisbona

Rubrica di viaggi, immagini e libri.
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"Per il viaggiatore che arriva dal mare,
 Lisbona,
 anche da lontano,
 si erge come un'affascinante visione di sogno, 
contro l'azzurro del cielo
 che il sole colora del suo oro."
Pessoa



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"La solitudine non è essere da soli,
la solitudine è non essere capaci di fare compagnia 
a qualcuno o a qualcosa
che sta dentro di noi"
J. Saramago


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"Fintanto che taciamo le domande
manteniamo l'illusione
di poter venire a sapere le risposte"
Saramago



"La vita non è in ordine alfabetico
come credete voi.
Appare...un po' qua un po' là"
A. Tabucchi

foto di Lucio Fiorillo

martedì 5 agosto 2014

"I viaggi sono i viaggiatori"
F. Pessoa




...e allora questo è il mio viaggio oggi, 5 agosto 






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Ho viaggiato tra le foto di L. Fiorillo
a:
Bocca della Selva innevata
Castelluccio di Norcia in luglio
Museo Archeologico di Napoli
 Museo della Musica a Bologna