Una singolare frontiera nel mio paese
L’anima di un paese traccia geografie singolari, trasforma
una mappa in territorio, ne svela ricchezze delicate…
Da diversi anni, nell’ andare e tornare dallo studio,
attraverso una singolare frontiera, vigilata con zelo da un uomo di circa
trent’anni, dall’aspetto e dalla sostanza di un bambinone. La sua postazione è dietro la grata del cortile, in piedi, oppure
seduto sulla panchina antistante l’abitazione. Col tempo, il rituale di
passaggio si é caratterizzato in questo modo: d’estate, spostandomi in bicicletta, ci scambiamo sei rapide
battute, “ dove vai?” “ allo studio” e “dov’ è”? “ più avanti” “ ciao” “
ciao”. D’inverno, invece, passando la
frontiera in auto, io mi limito ad alzare la mano in segno di saluto e C. fa
altrettanto, entrambi complici di quel singolare legame che scandisce,
delicatamente, un pezzo della quotidianità. Le frontiere sono un’esigenza
psichica ineliminabile, regolano la paura dello scambio, rassicurano e, allo stesso tempo, pongono le premesse per
essere violate. Mi gusto il sapore provocatorio di questo pensiero da un
piccolo paese del sud: in epoca di globalizzazione, se vogliamo veramente
favorire gli scambi, bisogna consolidare l’importanza delle frontiere!
Qualche volta, accanto a C., ho visto seduta l’anziana madre,
N., una esistenza originalmente composta e scomposta tra energica vitalità, fatica e imprecazioni, che mi ricorda certi ritratti
cubisti di Picasso: realistici, crudi, profondamente solidali con la complessità dell’uomo, mai definitivamente
pacificata in tutti noi. N. si era evidentemente accorta di quel rituale tra me
e il figlio e quando passavo la vedevo seguire i nostri scambi di saluto, rimanendo con la bocca sdentata
semiaperta, forse stupita, incuriosita, ma senza riuscire a dir nulla. In
effetti, avevo l’impressione che in alcuni giorni madre e figlio, oltre a parlare tra loro, confabulassero ciascuno con
se stesso, seduti fedelmente accanto, ma in orbite parallele. Altre volte, dal
mio studio poco distante, sentivo N. che lanciava urla disperate e arrabbiate,
per quel figlio che non trovava, ma che in realtà non si era mai mosso oltre
cento metri dalla frontiera.
Ricordo un episodio accaduto qualche tempo fa: N, usava andare di domenica in Chiesa alla prima messa, forse,
come molti di noi, per pregare il Signore misericordioso, per Grazia
ricevuta, per chiedere perdono, per
essere amata. Quella mattina, ad un certo punto, si era alzata allarmata dal
suo posto, nel primo scranno, diffondendo un’ imbarazzante distrazione nei
fedeli concentrati sulla predica. Provando inutilmente a farsi intendere, si era fiondata sui piccoli ceri davanti al
Santo e aveva provato a realizzare qualcosa…spegnerli accenderli…, non si
capiva bene, ma la faccenda sembrava avere per lei un’importanza tale da non
poter essere rimandata. Ci vollero un paio di richiami eccessivamente
compassionevoli di alcune donne e quello perentorio ed aulico del prete per
indurla a sedersi. Ma N. restò con gli occhi accesi dalle fiammelle e, a messa
finalmente finita, la vidi spegnere ad
uno ad uno quei ceri e con essi la propria agitazione. Mentre la gente usciva,
notai che borbottava qualcosa,
sorridendo, ad un’ultima premurosa donnina, come per scusarsi, ma soddisfatta
di aver portato a compimento quel suo
misterioso pensiero. Azzardai, già peccando di sarcasmo, che in cuor suo ci
avesse voluto salvare tutti dalle fiamme: noi, lei e il Santo.
Qualche giorno fa, l’aria di Telese si era fatta già più
intensamente sulfurea, come tipicamente accade con l’arrivo del caldo o in
clima di elezioni, e stavo andando allo studio in bicicletta. Ho visto C. da
solo. Ha sollevato la mano in segno di saluto, e non ho potuto non notare che per la prima volta aveva sbagliato il
nostro rituale. “Probabilmente non sta bene” ho pensato. Ero in ritardo, ma mi
ero ripromessa di verificare che al ritorno tutto fosse tornato a posto. Così
non è stato. Di sera l’ho visto in piedi, davanti alla sua abitazione. Aveva un
berretto nero come quello di Corto maltese, l’avventuroso lupo di mare, mai
fermo troppo a lungo in nessun porto. Sono abituata a percepire i dettagli
importanti, spesso rappresentano la soglia di una trasformazione in atto. Forse,
ho pensato, C. comincia a sentirsi più adulto,
un uomo pronto a varcare il confine dei cento metri dalla madre.
Non ho avuto il tempo di finire il mio pensiero che l’ho
visto: il manifesto a lutto di N. mi è
pesato sull’anima come piombo. Mi sono limitata a ricambiare il saluto di C . alzando
la mano, perché in effetti sentivo anche io, di nuovo, un freddo invernale.
Per ora non c’è più quella singolare frontiera.
Scrive Franco Arminio
in Geografia commossa dell’Italia interna che se il luogo finale è la morte
“fin quando siamo vivi è solo una questione di bordi, di orli, di confine” o,
aggiungerei, …di frontiere.
Ciao a N. e a C.
FILOMENA
RITA DI MEZZA