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lunedì 27 ottobre 2014




“Dammi al vento perché mi porti via.”

Nominerò solo una volta Reyhaneh Jabbari, impiccata a 26 anni per aver ucciso il suo stupratore. Per saperne di più, basta leggere tra gli innumerevoli orrori di questi ultimi giorni e si capirà che non c’è più molto da capire.  Capire, ormai, abbiamo capito abbastanza. E molte persone sanno andare coerentemente oltre, come le coraggiose ragazze di Teheran che stanno protestando contro tali orrori, nonostante gli attacchi con l’acido alla loro Bellezza.  La frase “Dammi al vento perché mi porti via” è un’invocazione straziante della giovane alla madre, chissà, mi sono detta, forse per il timore che a quel poco di sé che resterà in terra,  non siano inflitte ancora insopportabili sconcezze e intollerabili umiliazioni.
Vorrei saper nominare, invece, in un’eco infinita la parola “madre”, perché risuoni come un tuono impietoso in tutte noi, mamme, quando non sappiamo proteggere la femminilità, non da alcuni uomini ottusi e brutali e dalle loro leggi corrispondenti, ma dalla nostra ottusità e brutalità verso noi stesse, quando rinneghiamo il potere e la fragilità che ci rendono femminili: siamo portatrici della possibilità di dare la vita, spingendola al mondo col parto,  ma anche di dare la morte, esattamente nello stesso atto, a future donne e uomini. Rinnoviamo la sacralità e la complessità di questo ruolo, inscritto nel corpo, ogni qualvolta ci assumiamo la responsabilità di far nascere, non solo con il parto, ma con la nostra presenza vitale, donne e uomini più rispettosi della reciproca Bellezza. Rinnoviamo la sacralità e la complessità di questo ruolo ogni qualvolta ci si accapponerà la pelle, perché il vento che spira sarà un vento di morte invocato da una giovane donna che non abbiamo saputo proteggere. Noi, mamme.

Filomena Rita Di Mezza