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sabato 26 ottobre 2013

"Ciclamini"...le creazioni artistiche di M. Rosaria Grillo

PLAYLIFE
è lieta di ospitare
le creazioni artistiche
di
M.Rosaria Grillo

Questa è una presentazione molto di parte!
...dalla parte degli affetti, ma soprattutto dell'ammirazione 
per l'eleganza, la raffinatezza e la cura certosina 
nella realizzazione di un lavoro.
Mi è capitato di vedere i luoghi dove M. Rosaria lavora
e
non saprei dire se fossi più incuriosita e catturata da essi 
o dagli oggetti in via di realizzazione.
Arabeschi di cerniere, fiori freschi, essiccati,
 ritagli di giacche delle nonne acquistate solo per ricavarne i magnifici bottoni,
 o quel pezzetto di stoffa che ha un tepore che ora non si trova più.
 Colle, borse, campanellini, cappelli, piccoli mobili restaurati o da restaurare.
Insomma, un mondo fantastico, nel cuore della sua abitazione
che bisognerebbe visitare
quando si è in cerca di un'idea per
esprimere "nelle cose"
una parte di sé, della propria vita.

Pausa
e
ammirate...









Incantevole, 
non trovate?
Ora vi racconto una piccolissima storia


Due bambine passeggiano in un parco. Una si china ogni tanto a raccogliere dei ciclamini, pudichi, col capo inclinato in un’offerta graziosa a chi sappia scorgerli all’ombra degli alberi o delle pietre, desiderarli, reciderli con mano si spera sapiente, senza strapparli, giusto appena sopra la base dello stelo che dovrà rimanere lungo e dritto, il tempo di farne un mazzetto disponendo i fiori a spirale, legati con un filo d’erba: un nodo deciso tra le piccole mani ne sancisce una rinascita, un delizioso bouquet! appena qualche minuto di apnea per la nuova vita dei ciclamini!
La scena si compone negli occhi assorti dell’altra bambina, che appare sempre un po’ altrove, diremmo su un  bordo di esistenza tra le cose circostanti e quelle che animano la sua fantasia, altrettanto intense, allettanti, attraenti. La si potrebbe definire distratta, e di sicuro lo è, se non fosse che quando si ferma a guardare un aspetto del mondo, qualcosa da cui è stata incuriosita, ne è assorbita così profondamente da portare alla luce ogni più intima sfumatura, le ragioni nascoste. Qualche volta  racconta ciò che ha visto agli altri inventando storie. Qualche volta anche gli altri rimangano incantati su quel bordo di esistenza…dove oggi ci sono le opere della bambina che amava raccogliere i ciclamini. 

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Di seguito alcune creazioni
scelte
per il richiamo alla stagione autunnale
Alcune di esse
sono state realizzate da M. Rosaria
per la presentazione di Libri,
Convegni,
e allestimenti eventi.






Grazie a M. Rosaria
per la bellezza delle sue creazioni
e
 a voi tutti
Ciao, a presto.





sabato 5 ottobre 2013


Scritto da una ragazza di 13 anni!

Il macchinista
di
Nathalie F.

(monologo)



 Il macchinista.

La foschia ricopriva tutto il vagone di nero. Buio. Come se non bastasse l’oscurità della notte a far paura ai passeggeri. Erano lì, ignari di quello che succedeva all’esterno. Avevano bisogno di tenere accesi i lumi, vicino. Anche se dormivano. Ogni tanto qualcuno, lo sfortunato che osava aprir gli occhi, urlava. Per quale motivo? Il buio a cui non era abituato lo assaliva e lo portava via. A immaginar persone che venivano a rubar gioielli o preziosità di ogni genere, ladri, assassini. Ad immaginare un buio che con le sue grandi mani li rapiva. Io, “Fabrizio il macchinista”, il ladro, l’assassino della notte, amavo il buio. Amavo perdermi nelle immagini sfocate della notte. Non c’erano più i contorni degli oggetti che li costringono in una forma precisa, ma erano liberi. Proprio come le macchie sul mio vecchio grembiule. Erano lì senza un perché, libere di ricoprire tutto il bianco, troppo luminoso ai miei occhi, scuri come il resto.
Non ero una figura importante in quel treno, un uomo semplice, costretto tutti i giorni a riempire i forni di carbone. Anch’esso nero. Mi trovavo nel vagone più lontano, più buio. Non avevo mai visto la luce. Ne avevo paura. Mi mostrava chi veramente ero: il povero illuso che aveva provato a diventare qualcuno, ma si era dovuto rassegnare. Non mi piacevo affatto. Il mio ruolo era pari a quello di un topo che vive nell’ oscurità delle fogne e se nella notte passavo a portare il carrello con il carbone per i vagoni, sentivo i passeggeri abbracciare i propri figli e dire loro: attenti, porta malattie, la peste! Il mio viso era perennemente ricoperto di fuliggine e cenere scura, come una maschera non riuscivo più a scollarmela di dosso. Una notte, corsi a sciacquarmi il viso, ma le macchie nere erano penetrate a fondo nei tessuti del mio viso magro. Strofinavo fino a farmi grossi graffi sulla faccia, che invecchiava sotto quel nero e me ne accorgevo. In che modo? I miei capelli, forse l’unica cosa che di umano mi restava. Per il resto ero solo un altro pezzo di carbone, bruciato dall’amarezza della mia stessa vita. E così passavo i miei giorni su quel treno nella speranza che un dì si sarebbe fermato, ma era come se mi perseguitasse: il rumore delle rotaie, il sudore per il troppo calore. Io e quel treno eravamo ormai in simbiosi. Se mai si fosse fermato, avrei trovato la pace eterna. Ma ero destinato a morire lì, su quelle rotaie. Il mio destino era come scritto sul carbone. E mi dimenavo, a volte cercavo di fermare il treno non mettendo più carbone nei forni, ma sapevo che non era quello il mio destino.
Invidiavo quelle donne nobili che viaggiavano sul treno, che portavano tante valigie piene di trucchi, di profumi, che si imbellettavano. E alla vista di cotanta bellezza mi lacrimavano gli occhi e mi illudevo che prima o poi avrei potuto avere anch’io una moglie. Mi innamoravo e loro scendevano dal treno e mi lasciavano qui, a soffrire ancora. E ora mi chiedo, per cosa ho vissuto? Per arrivare finalmente alla morte che porrà fine alle mie illusioni?