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sabato 28 novembre 2015

Nuovo viaggio de La compagnia Instabile: sulla rotta della memoria.


“Tutti i pazzi per il Sannio” : Giornata di solidarietà per gli alluvionati sanniti, venerdì 27 novembre ore 20.30 Cinema Teatro Modernissimo.



Lo scenario dell’alluvione nel Sannio retrocede dolcemente.

Il centro della scena è occupato da una barca di carta.  Ricordo cheda bambina era uno dei giochi più comuni. Una volta realizzata la delicata imbarcazione, si correva a metterla sull’acqua, nel mare blu del blu di una bacinella o, complice un adulto, addirittura al lago, quello vero. A ripensarci oggi, indipendentemente dalla tenuta della barca e dalla durata della navigazione, il focus del gioco era l’attimo in cui la si lasciava andare, quella frazione di secondo in cui una cosa tua inizia un viaggio e sebbene quello che avverrà non dipenda più da te, rimane comunque una parte tua che  guardi con fiducia e trepidazione salpare, finché puoi,  finché durerà. L’immagine iniziale di questo nuovo spettacolo de La Compagnia Instabile mi sembra una buona metafora della fragilità, ma anche della preziosità di ogni nuova  impresa, come quella di ripartire dopo  l’alluvione.  Sono ormai diversi anni che scrivo de La Compagnia Instabile, un piccolo-grande  gruppo di navigatori che continua a muoversi decisamente in controcorrente rispetto a quella che anticamente veniva chiamata la nave dei folli.  “La nave dei folli” scriveva Foucault “non era solo un parto di fantasia, ma derivava dalla comune prassi di allontanare i matti dalla comunità dei normali, eventualmente proprio affidandoli a gente di mare: accadeva spesso che venissero affidati a battellieri… Talvolta i marinai gettavano a terra questi passeggeri scomodi, ancor prima di quanto avevano promesso… Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli”. Che bello vedere che qualche volta sono i cosiddetti pazzi ad imbarcare persone che vivono uno stato di disagio.



Sto assistendo alle prove e mi trovo imbarcata mio malgrado. In realtà avrei dovuto essere io la  spettatrice, per scrivere queste righe, e loro sulla scena, ma oggi c’è stato un imprevisto (d’altronde il teatro è proprio come la vita) e quindi, eccomi qua, posizionata tra gli attori di fronte ad una scena vuota. Vuota, sì, perché quando ho scritto che il centro della scena è occupato da una barca, stavo solo immaginando! Stavo facendo esattamente quello che ci ha detto di fare il regista: oggi si reciterà solo per ripassare il copione, immaginando tutto quello che ci dovrebbe essere… ma non c’è, la  barca per esempio. (Tranquilli!  Voi, ovviamente, vedrete tutto quello che c’è da vedere, la barca, i bravi attori, i cantanti, secondo i canoni classici di una rappresentazione teatrale, anche se, trattandosi de La Compagnia Instabile, qualche imprevisto è la regola.) La trama è che la Compagnia sta partendo per un nuovo viaggio-teatrale, in un clima di incertezza e confusione sul da farsi. L’andirivieni  che precede la partenza, tra la banchina e la barca, ci riporta facilmente ad una esperienza comune, quella dei nostri viaggi, quando tutti, tipicamente, facciamo avanti e indietro tra stabilità e instabilità, tra le cose solide della vita e quelle che necessitano di fluire, tra la permanenza e l’andare via. Tra l’ordinario e un pizzico di follia. In questi momenti di inevitabile disorientamento è facile che ci venga in aiuto la memoria, vera protagonista di questo Spettacolo, “unica possibilità di mantenere la rotta”, come reciterà il nocchiero. Cos’altro è, infatti, la nostra identità, se non la continuità di noi stessi, in una vita in perenne trasformazione?



Ma la memoria, come scriveva Borges, è “una moneta che non è mai la medesima”, varia in funzione del presente, dell’atmosfera emotiva in cui ricordiamo, e varia anche in funzione delle rotte che ci prefiguriamo. Così, a volte,  è l’idea del futuro che dà slancio alla memoria, in una specie di inversione della freccia del tempo. Per agganciare questo concetto allo Spettacolo, dirò che ho visto i ricordi della Compagnia diventare altra cosa rispetto ai copioni precedenti. Un esempio per tutti. Alle mie spalle riconosco la voce di un’attrice che avevo già apprezzato in precedenti rappresentazioni. Una bella intensità della recitazione, una forza espressiva che immagino arrivi da lontano…mi giro e il ricordo vacilla, l’attrice in un certo senso non è più quella di qualche anno fa: oggi è seduta vicino ad una persona che sembra il suo alter ego. In questo viaggio navigano insieme. L’una bruna, l’altra bionda, l’una energica, l’altra flebile, l’una rema forte, l’altra accarezza la convessità del mare, l’una è una paladina della memoria, l’altra ha una delicata vaghezza…le immagino come un Giano bifronte, un piccolo cammèo di questa imbarcazione.

Il mio diario di bordo conserva diversi momenti toccanti dello Spettacolo, che vi consiglio di non perdere, ma vorrei segnalarvi l’inizio. Si comincerà con il Documentario Vivere alla grande, della Regista sannita Daniela Riccardi, scritto in collaborazione con Beatrice Cecaro e Antonio Mango. La Riccardi, di cui avevo già visto il Documentario su Bill De Blasio, torna a dare rilievo a persone della propria terra di origine. Si legge nella sinossi che in questo lavoro l’occhio della telecamera è puntato su una giornata “di ordinaria follia”, trascorsa nella U.O.C. di Salute mentale, diretta dal Dr. Maurizio Volpe.  La bella realizzazione è attraversata da un filo di profonda leggerezza, che non è facile tessere per chi entri in contatto con la sofferenza psichica, perché si è sempre a rischio di essere o eccessivamente sentimentali o difensivamente distaccati. Qui, invece, ci si commuove e si riflette tenuti dall’uso sapiente della telecamera che, come vedrete, ad un certo punto passa dalle mani della regìa a quelle di un paziente, con una naturalezza che mi ha colpito. Credo infatti che sia un raro pregio saper documentare la realtà, muovendosi dentro con una presenza lieve. Dalla bidimensionalità dello schermo su cui è proiettato il Documentario, al tutto tondo del Teatro… grazie alla bravura della regista si crea un curioso effetto ottico:


 pare che le figure si stacchino dallo schermo del cinema per  prendere corpo sulla scena, ad un passo da noi, senza soluzione di continuità.

Ad un certo punto delle riprese, la Riccardi si sofferma intuitivamente su un primo piano del  Dr. Volpe che parla della tenerezza, quale atmosfera prevalente nel lavoro con i pazienti. Scriveva Eugenio Gaburri, uno dei più noti psicoanalisti italiani: “La nozione di corrente di tenerezza introdotta da Freud non ha trovato molto spazio nella riflessione…invece essa è di fondamentale importanza per la vita psichica…essa è gratuita: un rapimento intenerito dinanzi alla diversità dell’altro”.
“…battiam battiam le mani…”: arriva La Compagnia Instabile.

(le foto sono di L.Fiorillo)

Filomena Rita Di Mezza

sabato 23 maggio 2015

martedì 5 maggio 2015









Una singolare frontiera nel mio paese

L’anima di un paese traccia geografie singolari, trasforma una mappa in territorio, ne svela ricchezze delicate…
Da diversi anni, nell’ andare e tornare dallo studio, attraverso una  singolare frontiera,  vigilata con zelo da un uomo di circa trent’anni, dall’aspetto e dalla sostanza di un bambinone. La sua postazione è  dietro la grata del cortile, in piedi, oppure seduto sulla panchina antistante l’abitazione. Col tempo, il rituale di passaggio si é caratterizzato in questo modo: d’estate, spostandomi  in bicicletta, ci scambiamo sei rapide battute, “ dove vai?” “ allo studio” e “dov’ è”? “ più avanti” “ ciao” “ ciao”.  D’inverno, invece, passando la frontiera in auto, io mi limito ad alzare la mano in segno di saluto e C. fa altrettanto, entrambi complici di quel singolare legame che scandisce, delicatamente, un pezzo della quotidianità. Le frontiere sono un’esigenza psichica ineliminabile, regolano la paura dello scambio, rassicurano e,  allo stesso tempo, pongono le premesse per essere violate. Mi gusto il sapore provocatorio di questo pensiero da un piccolo paese del sud: in epoca di globalizzazione, se vogliamo veramente favorire gli scambi, bisogna consolidare l’importanza delle frontiere!
Qualche volta, accanto a C., ho visto seduta l’anziana madre, N., una esistenza originalmente composta e scomposta  tra energica vitalità, fatica e  imprecazioni, che mi ricorda certi ritratti cubisti di Picasso: realistici, crudi,  profondamente solidali con la  complessità dell’uomo, mai definitivamente pacificata in tutti noi. N. si era evidentemente accorta di quel rituale tra me e il figlio e quando passavo la vedevo seguire i nostri  scambi di saluto, rimanendo con la bocca sdentata semiaperta, forse stupita, incuriosita, ma senza riuscire a dir nulla. In effetti, avevo l’impressione che in alcuni giorni madre e figlio, oltre a  parlare tra loro, confabulassero ciascuno con se stesso, seduti fedelmente accanto, ma in orbite parallele. Altre volte, dal mio studio poco distante, sentivo N. che lanciava urla disperate e arrabbiate, per quel figlio che non trovava, ma che in realtà non si era mai mosso oltre cento metri dalla frontiera.
Ricordo un episodio accaduto qualche tempo fa: N,  usava andare di  domenica in Chiesa alla prima messa, forse, come molti di noi, per pregare il Signore misericordioso, per Grazia ricevuta,  per chiedere perdono, per essere amata. Quella mattina, ad un certo punto, si era alzata allarmata dal suo posto, nel primo scranno, diffondendo un’ imbarazzante distrazione nei fedeli concentrati sulla predica. Provando inutilmente a farsi intendere,  si era fiondata sui piccoli ceri davanti al Santo e aveva provato a realizzare qualcosa…spegnerli accenderli…, non si capiva bene, ma la faccenda sembrava avere per lei un’importanza tale da non poter essere rimandata. Ci vollero un paio di richiami eccessivamente compassionevoli di alcune donne e quello perentorio ed aulico del prete per indurla a sedersi. Ma N. restò con gli occhi accesi dalle fiammelle e, a messa finalmente finita,  la vidi spegnere ad uno ad uno quei ceri e con essi la propria agitazione. Mentre la gente usciva, notai che  borbottava qualcosa, sorridendo, ad un’ultima premurosa donnina, come per scusarsi, ma soddisfatta di aver  portato a compimento quel suo misterioso pensiero. Azzardai, già peccando di sarcasmo, che in cuor suo ci avesse voluto salvare tutti dalle fiamme: noi, lei e il Santo.
Qualche giorno fa, l’aria di Telese si era fatta già più intensamente sulfurea, come tipicamente accade con l’arrivo del caldo o in clima di elezioni, e stavo andando allo studio in bicicletta. Ho visto C. da solo. Ha sollevato la mano in segno di saluto, e non ho potuto non notare  che per la prima volta aveva sbagliato il nostro rituale. “Probabilmente non sta bene” ho pensato. Ero in ritardo, ma mi ero ripromessa di verificare che al ritorno tutto fosse tornato a posto. Così non è stato. Di sera l’ho visto in piedi, davanti alla sua abitazione. Aveva un berretto nero come quello di Corto maltese, l’avventuroso lupo di mare, mai fermo troppo a lungo in nessun porto. Sono abituata a percepire i dettagli importanti, spesso rappresentano la soglia di una trasformazione in atto. Forse, ho pensato, C.  comincia a sentirsi più adulto, un uomo pronto a varcare il confine dei cento metri dalla madre.
Non ho avuto il tempo di finire il mio pensiero che l’ho visto: il manifesto a lutto di N.  mi è pesato sull’anima come piombo. Mi sono limitata a ricambiare il saluto di C . alzando la mano, perché in effetti sentivo anche io, di nuovo, un freddo invernale.
Per ora non c’è più quella singolare frontiera.
 Scrive Franco Arminio in Geografia commossa dell’Italia interna che se il luogo finale è la morte “fin quando siamo vivi è solo una questione di bordi, di orli, di confine” o, aggiungerei, …di frontiere.
 Ciao a N. e a C.

FILOMENA RITA  DI MEZZA


lunedì 9 marzo 2015

CON UN PIZZICO DI ACIDITA’…

Per favore, lasciateci mangiare in pace!



Un tempo si diceva: “quando si mangia, si combatte con la morte!”. La presenza della Signora con la falce tra i commensali se da una parte creava una certa apprensione, irrigidendo inopportunamente l’atmosfera, dall’altra garantiva quel minimo di attenzione per alcune regole di base, utili per gustare in santa pace un pranzo, prima tra tutte: quando si mangia, non si parla. Ovvero una bocca, quella per mangiare, scaccia l’altra, quella per parlare. Il monito era rivolto ai convitati, ma solo perché, in un tempo ormai lontano, chi preparava e serviva i cibi aveva “il buongusto” di tacere sulla propria opera, evitando insopportabili sproloqui sulla sostanza e improbabili descrizioni di estetica che oggi ci tocca ingurgitare: “coscia di tacchino adagiata su un letto di cavoli”, “foglia di insalata di vattelappesca, interpretata con un guizzo d’aglio, abbinata ad un vinello nostrano di media persistenza gusto-olfattiva” e, addirittura, “gola di suino con elisìr tonificante al limone”, che già te lo vedi, il povero maiale,  che deve sopportare di morire sottoposto ad una raffinata toilette. E vi assicuro che tali affermazioni, tratte da famosi, spettacolari programmi di cucina, imperversano anche in ristoranti nostrani! Ma vi prego: smettetela! Qualunque piatto ci venga servito, fosse anche un cestino di pane, è accompagnato da un insostenibile corredo di parole. Provi a lanciare un’occhiata (appunto muta) benevola, per indurre l’altro a lasciarti almeno il pane senza andare oltre, ma, niente da fare!,  dovrai ascoltare il povero cameriere, che un tempo si distingueva proprio per la capacità di discrezione, declamare a memoria la composizione del piatto. Se si è fortunati, si eviteranno di avere a tavola direttamente il cuoco o il proprietario del ristorante, che hanno dalla loro l’aggravante del narcisismo nel raccontarti ciò che staresti, bontà loro, per mangiare. Già perseguitati in tutte le salse, è il caso di dire, dalla pantomima del cucinare fatta da Masterchef e dai suoi cloni, non ci resta che rifugiarci in qualche posticino dove chi ci ospita sappia tenere la bocca chiusa,  perché la vorremmo aprire noi, per mangiare! e  dove, ma ora vado davvero per il sottile, sia gentilmente suggerito di evitare, se possibile, di fotografare il cibo come ornamento della propria faccia da mettere su facebook (il maiale di cui sopra vorrebbe sicuramente che la sua fine ingloriosa fosse molto riservata!).
Filomena Rita Di Mezza

http://menadimezza66.blogspot.it/