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sabato 5 ottobre 2013


Scritto da una ragazza di 13 anni!

Il macchinista
di
Nathalie F.

(monologo)



 Il macchinista.

La foschia ricopriva tutto il vagone di nero. Buio. Come se non bastasse l’oscurità della notte a far paura ai passeggeri. Erano lì, ignari di quello che succedeva all’esterno. Avevano bisogno di tenere accesi i lumi, vicino. Anche se dormivano. Ogni tanto qualcuno, lo sfortunato che osava aprir gli occhi, urlava. Per quale motivo? Il buio a cui non era abituato lo assaliva e lo portava via. A immaginar persone che venivano a rubar gioielli o preziosità di ogni genere, ladri, assassini. Ad immaginare un buio che con le sue grandi mani li rapiva. Io, “Fabrizio il macchinista”, il ladro, l’assassino della notte, amavo il buio. Amavo perdermi nelle immagini sfocate della notte. Non c’erano più i contorni degli oggetti che li costringono in una forma precisa, ma erano liberi. Proprio come le macchie sul mio vecchio grembiule. Erano lì senza un perché, libere di ricoprire tutto il bianco, troppo luminoso ai miei occhi, scuri come il resto.
Non ero una figura importante in quel treno, un uomo semplice, costretto tutti i giorni a riempire i forni di carbone. Anch’esso nero. Mi trovavo nel vagone più lontano, più buio. Non avevo mai visto la luce. Ne avevo paura. Mi mostrava chi veramente ero: il povero illuso che aveva provato a diventare qualcuno, ma si era dovuto rassegnare. Non mi piacevo affatto. Il mio ruolo era pari a quello di un topo che vive nell’ oscurità delle fogne e se nella notte passavo a portare il carrello con il carbone per i vagoni, sentivo i passeggeri abbracciare i propri figli e dire loro: attenti, porta malattie, la peste! Il mio viso era perennemente ricoperto di fuliggine e cenere scura, come una maschera non riuscivo più a scollarmela di dosso. Una notte, corsi a sciacquarmi il viso, ma le macchie nere erano penetrate a fondo nei tessuti del mio viso magro. Strofinavo fino a farmi grossi graffi sulla faccia, che invecchiava sotto quel nero e me ne accorgevo. In che modo? I miei capelli, forse l’unica cosa che di umano mi restava. Per il resto ero solo un altro pezzo di carbone, bruciato dall’amarezza della mia stessa vita. E così passavo i miei giorni su quel treno nella speranza che un dì si sarebbe fermato, ma era come se mi perseguitasse: il rumore delle rotaie, il sudore per il troppo calore. Io e quel treno eravamo ormai in simbiosi. Se mai si fosse fermato, avrei trovato la pace eterna. Ma ero destinato a morire lì, su quelle rotaie. Il mio destino era come scritto sul carbone. E mi dimenavo, a volte cercavo di fermare il treno non mettendo più carbone nei forni, ma sapevo che non era quello il mio destino.
Invidiavo quelle donne nobili che viaggiavano sul treno, che portavano tante valigie piene di trucchi, di profumi, che si imbellettavano. E alla vista di cotanta bellezza mi lacrimavano gli occhi e mi illudevo che prima o poi avrei potuto avere anch’io una moglie. Mi innamoravo e loro scendevano dal treno e mi lasciavano qui, a soffrire ancora. E ora mi chiedo, per cosa ho vissuto? Per arrivare finalmente alla morte che porrà fine alle mie illusioni?





5 commenti:

  1. Davvero bello. Complimenti alla giovane Nathalie

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  2. tantissimi complimenti Nathalie, sei stata bravissima!!!
    sei una futura scrittrice, continua così!!
    un bacio!!!
    Grazia

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  3. "Ho nel cuore un sogno che mi porterà molto lontano"
    Grazie mille :-)
    nathalie

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