Scritto da una ragazza di 13 anni!
Il macchinista
di
Nathalie F.
(monologo)
Il
macchinista.
La
foschia ricopriva tutto il vagone di nero. Buio. Come se non bastasse
l’oscurità della notte a far paura ai passeggeri. Erano lì, ignari di quello
che succedeva all’esterno. Avevano bisogno di tenere accesi i lumi, vicino.
Anche se dormivano. Ogni tanto qualcuno, lo sfortunato che osava aprir gli
occhi, urlava. Per quale motivo? Il buio a cui non era abituato lo assaliva e
lo portava via. A immaginar persone che venivano a rubar gioielli o preziosità
di ogni genere, ladri, assassini. Ad immaginare un buio che con le sue grandi
mani li rapiva. Io, “Fabrizio il macchinista”, il ladro, l’assassino della
notte, amavo il buio. Amavo perdermi nelle immagini sfocate della notte. Non
c’erano più i contorni degli oggetti che li costringono in una forma precisa,
ma erano liberi. Proprio come le macchie sul mio vecchio grembiule. Erano lì
senza un perché, libere di ricoprire tutto il bianco, troppo luminoso ai miei
occhi, scuri come il resto.
Non
ero una figura importante in quel treno, un uomo semplice, costretto tutti i
giorni a riempire i forni di carbone. Anch’esso nero. Mi trovavo nel vagone più
lontano, più buio. Non avevo mai visto la luce. Ne avevo paura. Mi mostrava chi
veramente ero: il povero illuso che aveva provato a diventare qualcuno, ma si
era dovuto rassegnare. Non mi piacevo affatto. Il mio ruolo era pari a quello
di un topo che vive nell’ oscurità delle fogne e se nella notte passavo a
portare il carrello con il carbone per i vagoni, sentivo i passeggeri
abbracciare i propri figli e dire loro: attenti, porta malattie, la peste! Il
mio viso era perennemente ricoperto di fuliggine e cenere scura, come una
maschera non riuscivo più a scollarmela di dosso. Una notte, corsi a
sciacquarmi il viso, ma le macchie nere erano penetrate a fondo nei tessuti del
mio viso magro. Strofinavo fino a farmi grossi graffi sulla faccia, che
invecchiava sotto quel nero e me ne accorgevo. In che modo? I miei capelli,
forse l’unica cosa che di umano mi restava. Per il resto ero solo un altro
pezzo di carbone, bruciato dall’amarezza della mia stessa vita. E così passavo
i miei giorni su quel treno nella speranza che un dì si sarebbe fermato, ma era
come se mi perseguitasse: il rumore delle rotaie, il sudore per il troppo
calore. Io e quel treno eravamo ormai in simbiosi. Se mai si fosse fermato,
avrei trovato la pace eterna. Ma ero destinato a morire lì, su quelle rotaie.
Il mio destino era come scritto sul carbone. E mi dimenavo, a volte cercavo di
fermare il treno non mettendo più carbone nei forni, ma sapevo che non era
quello il mio destino.
Invidiavo
quelle donne nobili che viaggiavano sul treno, che portavano tante valigie
piene di trucchi, di profumi, che si imbellettavano. E alla vista di cotanta
bellezza mi lacrimavano gli occhi e mi illudevo che prima o poi avrei potuto
avere anch’io una moglie. Mi innamoravo e loro scendevano dal treno e mi
lasciavano qui, a soffrire ancora. E ora mi chiedo, per cosa ho vissuto? Per
arrivare finalmente alla morte che porrà fine alle mie illusioni?
Davvero bello. Complimenti alla giovane Nathalie
RispondiEliminaGrazie da parte di Nathalie.
Eliminatantissimi complimenti Nathalie, sei stata bravissima!!!
RispondiEliminasei una futura scrittrice, continua così!!
un bacio!!!
Grazia
...mai illusioni... ma solo sogni :-)
RispondiElimina"Ho nel cuore un sogno che mi porterà molto lontano"
RispondiEliminaGrazie mille :-)
nathalie